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stefano rhoIl buio oltre la siepe”, verrebbe da dire, citando il titolo italiano del capolavoro di Harper Lee. E sì, perché la storia del professor Stefano Rho - e del suo
licenziamento dalla cattedra di filosofia del Liceo Falcone di Bergamo - ha qualcosa di veramente oscuro e kafkiano. Dimostra come
l’applicazione pedissequa e scriteriata della lettera di una norma, piuttosto che del suo autentico spirito, può partorire effetti che sono un insulto all’intelligenza, al buon senso e al comune senso civile.

Riassunto delle puntate precedenti.

Come ha raccontato Gian Antonio Stella sul “Corriere della sera”, undici anni orsono, in piena notte, in un paesino di poche anime in una Valle della Bergamasca, Stefano Rho ha fatto quello che hanno fatto tutti gli uomini viventi su questo pianeta almeno una volta nella vita: non trovando un bagno dove urinare, ha fatto pipì in un cespuglio.

Era Ferragosto, erano le due di mattina in un paese di 182 anime che dormivano già. Non Piazza Duomo a mezzogiorno, per intenderci.

Passa una volante dei Carabinieri che gli fa una ramanzina – e vabbè – e, non paga, con una diligenza pari solo all’ottusità nell’applicazione della legge, fa rapporto al Comando.

E così un anno dopo il povero Stefano si ritrova davanti al Giudice di pace di Zogno – il secondo genio giuridico di questa storia – perché ”in un piazzale illuminato adiacente alla pubblica via” aveva compiuto “atti contrari alla pubblica decenza orinando nei pressi di un cespuglio”, come recitava l’atto di convocazione.

Condanna e multa di 200 euro che il criminale efferato ha saldato regolarmente.

Il reprobo incontinente ha pagato – in tutti i sensi – per la sua colpa, espiando il suo delitto.

Storia finita dunque? Ma ci mancherebbe altro.

Il 2 settembre 2013 il professor Rho, finalmente assunto dopo quattordici anni di precariato come insegnante di filosofia in varie scuole superiori della bergamasca, firma un’autodichiarazione prestampata nella quale è riportata la dicitura “dichiara di non aver riportato condanne penali e di non essere destinatario di provvedimenti che riguardano l’applicazione di misure di sicurezza”.

Le solite dichiarazioni nella quali uno autocertifica, in sostanza, di non avere avuto condanne penali iscritte nel Casellario giudiziario: come ognuno di noi avrebbe fatto, Stefano Rho mai si sarebbe immaginato che la multa da duecento euro per vilipendio alla siepe bergamasca nel buio di una notte ferragostana potesse rientrare tra i crimini da denunciare.

E qui entra in scena il terzo genio giuridico di questa tragicommedia, il preside della scuola pubblica dove insegna(va) il professor Rho: appreso attraverso alcuni i controlli che il professore era stato destinatario di un decreto penale passato in giudicato - la multa per la pipì ferragostana, appunto - lo zelante preside convoca il professore per avere chiarimenti.

Il reo spiega l’accaduto - della serie “mi scuso ma non immaginavo che quella multa rientrasse tra le condanne da segnalare” – e il preside, pur ritenendo plausibile la spiegazione, coerentemente lo censura. Applausi.

Tutto a posto allora? Ma figuriamoci.

Una volta comminata la censura, non potevano mancare i quarti e ultimi geni del diritto: i giudici della Corte dei Conti i quali, del tutto indifferenti al tipo di condanna - che non rientra nemmeno tra quelle da iscrivere al Casellario giudiziario – decide che il professor Rho, con uno stato di servizio ineccepibile, amatissimo dagli alunni e stimato dai colleghi, deve essere licenziato.

E così finisce. 

La palla ritorna al preside zelante – quello della censura - che, supportato dalle dotte disquisizioni della Corte dei Conti, dichiara la decadenza «senza preavviso» dell’insegnante, la perdita delle anzianità accumulate, la cancellazione del «reo» da tutte le graduatorie provinciali.

Conclusione: la siepe è ancora lì viva e vegeta, lo Stato ha incassato duecento euro, un bravo professore padre di tre figli non ha più un lavoro, decine di alunni si rifiutano di studiare filosofia perché vogliono che torni il loro professore - il che la dice lunga sulla sua preparazione - ci sarà una causa di lavoro, con i relativi costi per l’amministrazione giudiziaria, che con ogni probabilità il professore vincerà e lo Stato - cioè tutti noi – dovrà, giustamente, risarcirlo.

Un capolavoro. Attila non avrebbe saputo fare di meglio.

Sorge allora una domanda: cosa è, o cosa dovrebbe essere, il diritto? O meglio, le nostre istituzioni chiamate ad applicarlo – e qui ci sono tutte, forze di sicurezza, magistrati, dirigente pubblica - cosa pensano che sia?

E’ l’applicazione meccanica e matematica delle norme vigenti? O è piuttosto l’applicazione ragionata, commisurata al caso concreto, di quelle stesse norme, un’applicazione ragionata al punto da legittimare un arretramento di quelle stesse norme se la loro applicazione conduce a un risultato diverso - quando non addirittura contrario - a quello per il quale sono state scritte?

Occorre decidere se essere schiavi oppure padroni della norma, sottomessi alla sua fissità - che non può prevedere, nella sua astrattezza, tutti i molteplici effetti, anche paradossali, che ne possono derivare - oppure legittimati ad utilizzarla cum grano salis avvalendoci dei principi generali del diritto, primo fra tutti quello dell’equità, da intendersi, secondo la definizione di Aristotele, come il “necessario temperamento del rigore della legge”.

Tutto il contrario, quindi, dell’uso sciatto, scriteriato e controproducente della legge che tutta una serie di dipendenti dello Stato hanno fatto nel caso monstre del professor Rho.

Perché contrariamente a quanto si crede, essere giuristi non significa sapere a memoria - e applicare meccanicamente - le leggi, peraltro mutevoli nel tempo e nello spazio; così come non basta sapere le tabelline per essere un astrofisico o conoscere le lettere dell'alfabeto per potersi dire uno scrittore.

Norme, lettere e numeri sono strumenti. Bisogna conoscerli, certo, ma soprattutto occorre saperli usare.

La differenza la fa il ragionamento. Che troppo spesso manca. Ma che può essere favorito e coltivato, per dirne una, dalla filosofia. Guarda caso la materia che insegna il professor Rho, il quale è stato licenziato per eccesso di formalismo e mancanza di ragionamento.

Ditemi voi se non è una beffa.

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