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gaspero giannoniIl 7 giugno 1945 all’ospedale di Niguarda moriva mio zio Gaspero Giannoni. Trasportato a Milano con treni della Croce Rossa, era da due giorni rientrato da un ospedale vicino a Dachau: l’ultimo dei lager dove era stato deportato come politico.

Era nato del 1904 a Campiglia Marittima (LI), aveva due anni meno del fratello, mio padre Duilio, che era nato a Piombino nel 1902.

Negli anni Venti, con la crisi dell’azienda siderurgica la “Magona” di Piombino, ci fu un trasferimento di un gruppo di toscani a Sesto San Giovanni e, tra questi, mio padre e mio zio che trovarono lavoro in alcune fabbriche siderurgiche a Sesto San Giovanni e a Milano, per approdare alla fine alla quarta sezione della Breda Siderurgica di Sesto.

Ed è lì che nel 1943 si trovarono a lavorare assieme al laminatoio: mio padre Duilio e lo zio Gaspero detto “Turno”, soprannome che gli era stato imposto al bar che frequentava abitualmente perché, quando decidevano di vedersi per le partite a carte, il più delle volte rispondeva “sono di turno al lavoro”. Da allora tutti gli amici, ma anche noi familiari, lo chiamavamo “Turno”. Faceva lo “sbozzatorista”, addetto al treno di laminazione che compiva il primo passaggio di riduzione della barra di metallo incandescente dello spessore di circa 10 centimetri, mentre mio padre era un “serpentatore” che, sempre al treno di laminazione, compiva l’ultimo passaggio riducendo la barra a trafilato di 2-3 centimetri. Un lavoro molto pericoloso che ben due volte gli procurò serie bruciature alle gambe.

Turno sposò Lilia, anche lei toscana di Donoratico sempre in provincia di Livorno, ed ebbe due figli: Lida nata nel ’30 e Renato nel ’34. Duilio sposò mia madre Maria De Diana che proveniva da Lozzo di Cadore sulle Dolomiti, da cui nacquero nel ’25 mio fratello Idilio ed io nel ’35. Attualmente siamo rimasti in vita io e mio cugino Renato, con il quale ci vediamo spesso e ci sentiamo almeno due volte alla settimana.

A seguito degli scioperi del marzo 1943, mio zio fu arrestato e mio padre licenziato quale “fratello del noto sovversivo Gaspero Giannoni”: erano entrambi antifascisti, ma Turno era impegnato politicamente nel Partito Comunista e si esponeva apertamente raccogliendo fondi per il “Soccorso rosso” in aiuto delle famiglie degli antifascisti in prigione. Saputo dell’arresto del figlio, mio nonno Angelo partì in bicicletta da Piombino ed andò a Roma da un generale (diventato un alto gerarca fascista) del quale era stato attendente durante la prima guerra mondiale e riuscì a farlo liberare. I due fratelli trovarono lavoro al laminatoio “Spadaccini” in via Corridoni sempre a Sesto San Giovanni.

Dopo il 25 luglio, con la caduta del governo fascista e l’arresto di Mussolini, mio padre rimase in quel laminatoio sino al 25 aprile del 1945, mentre mio zio ritornò alla Breda l’8 agosto del ’43. Tra l’altro, in quella occasione, mio padre tentò di dissuadere il fratello dal tornare a lavorare in Breda dicendogli: “non rientrare perché lì a comandare ci sono ancora quelli di prima“. Ma Turno abitava nelle case della Breda in via Venezia 25 e aveva paura che, se non fosse tornato ad essere dipendente di quell’azienda, sarebbe stato sfrattato.  Le grandi fabbriche, infatti, avevano da decenni scelto di costruire villaggi operai nelle vicinanze delle aziende e assegnavano gli appartamenti ai loro dipendenti. Era un modo per legare indissolubilmente i lavoratori alla fabbrica e per controllarli. Così Gaspero tornò a lavorare in Breda, perché era una grande e prestigiosa azienda e per non correre il rischio di essere sfrattato.

L’anno successivo, a seguito degli scioperi del marzo del ’44, mio zio venne nuovamente arrestato il 13 luglio e portato a San Vittore dove è stato torturato sino a strappargli le unghie dalle mani. Non venne scelto tra i quindici che il 10 agosto furono fucilati a Piazzale Loreto perché per le torture subite non si reggeva in piedi, ma il 18 agosto venne deportato prima a Bolzano poi in Germania a Flossenburg (matricola 21551), poi a Kottern (matricola 116349), a Fischen ed infine, dal 20 febbraio 1945, a Dachau.

Mio cugino Renato, che ebbe modo di vedere il padre nei due giorni prima della morte, mi ha riferito che il papà era magrissimo, senza unghie e con profondi solchi nella schiena.

Ho avuto occasione di visitare due volte il lager di Dachau: una nel 1961, in delegazione di tre consiglieri del Comune di Sesto (io per il PCI, Nova per la DC, Casellati per il PSI) ed una seconda nel 1972 con una delegazione di amministratori comunali del PIM (Piano Intercomunale Milanese). Visitando quel luogo, che con atroci sofferenze aveva provocato la morte di un mio caro parente, ho avuto momenti di profonda commozione.

Zelindo Giannoni

Ho tratto documentazione dai ricordi di mio cugino Renato, di mio fratello Idilio e dal libro “Dalla fabbrica ai lager” del compianto Giuseppe Valota presidente dell’ANED di Sesto San Giovanni e Monza.

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