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E’ stata una lunga giornata quella di domenica, trascorsa nel ruolo di scrutatore in via Bellini. Si scrivono dati, si colloquia con le persone, ma specialmente si osservano i volti e si riflette.

Ho aderito al Partito Democratico soltanto da un anno, dopo la sconfitta elettorale del 2018, al fine di dare il mio sostegno concreto a una formazione politica che idealmente ho sognato prima che esistesse e che mi auguro completi il suo percorso di identificazione, ritrovi il senso di comunità e consapevolezza delle ragioni ideali per cui è nata.

Avevamo tutti paura domenica mattina, inutile fingere: temevamo che il lungo logoramento, a cui ci siamo e siamo stati sottoposti, avrebbe determinato una debacle delle primarie.

I numeri della partecipazione a questo evento si prevedevano inferiori largamente al 1.5/1.6 milioni di votanti che si sono registrati. Possiamo affermare che il PD è sopravvissuto, che sia vitale è presto per dirlo.

Il nostro elettorato è rappresentato in larga parte da anziani, con prevalenza di classi medie e medio-alte, poco dai giovani il cui 33% non trova lavoro e speranza di vita serena e indipendente (leggete le significative statistiche sulle primarie pubblicate dal Corriere oggi 5 marzo).

E’ stato triste incontrare domenica  molti volti che alla prossima edizione non incontreremo più. Dobbiamo riflettere.

C’è stato sempre vivo entusiasmo tra di noi in passato: dalla designazione plebiscitaria a segretario di Walter Veltroni fino all’ultima a larghissima maggioranza di Matteo Renzi, ci si recava a votare con lo spirito di chi crede di compiere un atto decisivo per il paese, di chi si sente motore di speranza.

Ma è anche vero che sempre la nostra comunità è andata sostanzialmente a ratificare un candidato designato da un’intellighenzia rappresentata dai nostri giornali e dagli intellettuali di riferimento. Nicola Zingaretti era il vincitore designato di questa edizione, e così è stato.

Abbiamo dovuto e dovremo risolvere da oggi in poi molti nodi, strategici e ontologici nel contempo.

Il primo è che le primarie si sono svolte con un centrosinistra che è all’opposizione in un panorama non più (transitoriamente?) bipolare, con un sistema elettorale proporzionale e di conseguenza non sono, come un tempo, decisive per le sorti immediate del paese. Non illudiamoci, all’opposizione rimarremo ancora un po’. La fretta di ritornare subito al governo centrale non deve portarci a vendere la nostra anima: mi auguro che si ricominci dai quartieri, dalle città e dalle regioni con energie e uomini prevalentemente nuovi.

Il secondo è la crisi strategica che il centro-sinistra sta attraversando dibattendosi fra una sua anima che cerca di adattarsi al proporzionalismo e un'altra anima che difende ancora la vocazione maggioritaria. Il ritorno a un modo di pensare proporzionale probabilmente le renderebbe uno strumento democratico meno indispensabile, ma modificherebbe la nostra natura. Il Partito Democratico credo debba pensarsi grande e ambizioso.

Il terzo problema è il clima ostile, la svalutazione costante che i media e i social hanno operato nei confronti del PD nel suo complesso, sminuendo la portata dell’azione dei nostri governi ed enfatizzando i nostri conflitti ed errori. Questo l’ha fatto sia la stampa tradizionalmente ostile (Libero, Il Giornale, Il Fatto Quotidiano con particolare accanimento) sia quella che si dice amica (gruppo Repubblica, Espresso, Huffington Post), ma anche la stampa moderata come il Corriere della Sera che, come da tradizione ultracentenaria, è sempre stata plasticamente governativa. E’ stata evidente una sostanziale mancanza d’informazione sullo svolgimento del nostro congresso nelle reti televisive RAI e Mediaset, ormai prone al governo in carica. La sola rete indipendente che ne ha fornito informazione in modo sufficiente è Skynews. Mediaticamente siamo stati marginali.

 

Inutile nasconderselo, c’è una quarta ragione: l’assenza fra i candidati, anche in colui che ho votato e nello stesso neo-segretario Nicola Zingaretti, di una evidente capacità di leadership e di visione politica chiaramente espressa.

Ho sentito Prodi evocare necessaria la figura di un padre per il partito. Posso umilmente dissentire? Il paese come il partito ha troppi nonni e padri e pochi figli, e padri e nonni che spesso non hanno gli strumenti per comprendere le modificazioni drammatiche di un mondo che corre assai più velocemente delle loro categorie di pensiero.

Ma andiamo al punto.

Credo sia stato Husserl, ma potrei sbagliarmi, ad affermare che “l’essenza della presenza è l’assenza”.

L’assenza di Matteo Renzi dall’agone politico interno al PD è stata ingombrante.

Che piaccia o no, è stato colui che, con l’energica arroganza dei giovani (non fraintendetemi, l’arroganza dei vecchi la trovo ben superiore) ha rianimato per alcuni anni un partito chiaramente in affanno, nato da poco e già invecchiato, lacerato fra una tensione verso una nuova identità che risponda più efficacemente ad un mondo globalizzato e il timore di modificarsi che ha portato a terribili lotte intestine da parte di chi ha difeso le precedenti tradizioni storiche in cui si era formato, per poi togliere rabbiosamente il disturbo. Renzi ha interpretato una svolta nel concetto di destra e di sinistra (non certamente il suo superamento, perché il suo superamento è il fascismo e il nazional-socialismo), ha dato temporaneamente fiducia a un paese depresso e sconfitto dopo anni di logorante esperienza berlusconiana, generatrice di tanti danni economici e sociali, e di gelidi governi tecnici.

Il prezzo dei conflitti autolesionistici che abbiamo vissuto, delle lentezze nel comprendere i processi in corso, di letture del mondo contemporaneo secondo parametri novecenteschi, è stato l’indebolimento dell’azione di governo, il mostrare il fianco ad ogni attacco, anche ai più ingiusti. Ancora nel corso della campagna per le primarie gli organi di stampa e l’opinione pubblica hanno faticato a non pensare al PD come al partito del nostro ex segretario e premier contrapposto a chi dovrebbe liberarsene definitivamente: questo, come dopo chiarirò, è sbagliatissimo e pericoloso per tutti noi.

Renzi ha avuto una visione del nostro futuro come di un paese che sfida la globalizzazione secondo logiche di apertura, in un processo riformistico rapido, incessante e sempre perfettibile, contrapposta ad una visione sostanzialmente regressiva, terrorizzata da un futuro descritto come minaccioso, arroccata in una difesa protezionistico-assistenziale di un cittadino infantilizzato, reso dipendente, vissuto come privo di risorse da far emergere e scarse capacità di adattamento (nuova destra che si è coagulata nell’attuale governo).

Renzi ha avuto chiaro che il centro di ogni azione politica è la fiducia nell’individuo, creare per lui il lavoro, affrontandone le sue crescenti complessità, riconsiderandolo nella sua nuova natura e nei mutati rapporti fra lavoratore e impresa, nelle sue caratteristiche ormai necessariamente mutevoli per ogni singolo soggetto nel corso della sua vita lavorativa, e creare un welfare che si adatti a tali vorticosi mutamenti. Insomma, i principi di una nuova sinistra liberal-democratica hanno trovato finalmente espressione nel PD.

Il suo limite come leader è stato di non avere avuto capacità sufficiente a coinvolgere tutto il suo partito e la maggioranza del paese in questa sfida, di non chiedere un chiaro patto generazionale, sacrifici dei padri per il futuro dei figli, di non spiegare adeguatamente agli italiani con parole semplici ed empatiche la sua visione, quello che prossimamente ci attende e del percorso attraverso cui il paese potrebbe sopravvivere alla rivoluzione globale in corso, senza alzare muri destinati comunque a crollare travolgendoci.

Insomma, la beffa per un maestro della comunicazione di aver perso il contatto empatico con molti dei suoi cittadini, di non essere riuscito a farsi capire da molti, ma di avere avuto l’illusione di essere compreso, come un ufficiale al fronte che ordina l’attacco con gran parte delle sue truppe che non ne percepiscono i comandi e rinunciano impauriti all’assalto, rifugiandosi in trincea.

Il suo progetto, che io ancora condivido, si è solo parzialmente realizzato.

Identificare un nemico per giustificare le proprie paure, incapacità e sofferenze, è un meccanismo infantile che sembra pervadere lo scenario politico attuale (i migranti per Salvini, Il PD per i 5 Stelle, Renzi per una parte della sinistra).

Per questo qualcuno ha l’illusione che la sua espulsione o quella di altri, la cancellazione di tali esperienze dalla storia del partito, sia la cura, la via per ricostruire una comunità lacerata. C’è chi si è spinto a definirlo un virus da debellare.

Io penso al contrario che questa visione mai rappresentata pienamente nel nostro paese, ma tradizionale nei paesi anglosassoni, sia da implementare pienamente nel partito e possa convivere con quella social democratica che oggi la nostra comunità ha deciso di sostenere.

Il PD potrebbe trovare finalmente la sua piena realizzazione se, come nei partiti laburisti e democratici di altri paesi, riuscirà ad accogliere le due anime complementari della sinistra. Se al contrario si vivesse questa visione come estranea, inappartenente alla sinistra, sarebbe a mio avviso un errore esiziale.

Sia chiaro, è in gioco qualcosa di più importante del PD, è in gioco in questa fase della Storia la sopravvivenza del paese e forse anche dell’Europa come sistema politico, economico e culturale autonomo. Credo che una sinistra dinamica, coesa e innovativa sia decisiva per superare la minaccia della nuova destra ai diritti civili individuali, alle pari opportunità di genere, alla società aperta multietnica, alla pace sociale, alla crescita economica al progresso scientifico-tecnologico e ad una ricchezza meglio distribuita.

Ammetto di non conoscerlo a sufficienza, ma mi auguro che il neo-Segretario Nicola Zingaretti sia all’altezza della sua enorme responsabilità, abbia una visione da disegnare e perseguire e non solo una strategia per recuperare voti e riconquistare il governo, e abbia la capacità di rimettere insieme una comunità lacerata che molti descrivono in diaspora. Abbiamo bisogno di chi prosegua il cammino del PD, oltre il passato remoto e anche prossimo, che finalmente dia pieno compimento al progetto originario.

Personalmente quando sono disorientato, demotivato e confuso in ogni aspetto della mia vita, mi ritrovo a rievocare con il pensiero le ragioni originarie delle mie scelte per ritrovarne il senso e lo slancio.

Cerco nuovamente le parole, le emozioni, i volti che mi hanno ispirato ed emerge ancora dirompente il “sermone” pronunciato il 6 giugno 1966 a Cape Town che credo dovrebbe essere la nostra Costituzione morale e ideale: “Ripple of Hope” di Bob Kennedy.

Riascoltandolo mi accorgo che potrebbe essere scritto oggi del tutto inalterato, visionario compendio di tutto ciò per cui siamo nati come persone, come sinistra contemporanea e come partito: o saremo quello o non saremo più.  

Invito tutti a rileggerlo e riascoltarlo, perché in quelle parole forse possiamo ritrovare il terreno comune.

Rivedo me stesso ragazzino dodicenne quando piansi a dirotto alla notizia del suo omicidio: un lutto che ho sanato solo con la rinascita della sua visione e prassi politica nel Partito Democratico. Cito un passaggio, un sentimento non un ragionamento, condizione ineludibile da cui oggi possiamo fare un ultimo tentativo per ripartire, per ritornare a essere una comunità ampia, diversificata e coesa:

 

” questo mondo richiede le qualità dei giovani: non un periodo della vita, ma uno stato mentale, un temperamento della volontà, una qualità dell’immaginazione, una predominanza del coraggio sulla timidezza; dell’appetito per l’avventura sulla vita tranquilla.”

 

Ora torno agli umili impegni di circolo, fin quando percepirò di sentirmi a casa mia.

Invito a rimanere nel partito tutti coloro che, con grande energia, hanno dato tanto impegno personale in questi anni vedendo le proprie idee temporaneamente accantonate.

 

Viviamo tempi pericolosi, ma interessanti.

 

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