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climate changeComincia oggi, a firma di Francesca Dell'Aquila, una "rubrica clima*" che intende mettere in luce la complessità e la per certi versi l'unicità dei tempi che viviamo in relazione all'ambiente che ci circonda. Buona lettura. 

  1. Quanto ci abbiamo messo a rendercene conto?

Con l’espressione “cambiamenti climatici” ci si riferisce a ogni cambiamento del clima nel tempo, dovuto sia alla variabile naturale che alla variabile legata all’attività umana.

Ogni anno l’Organizzazione Meteorologica Mondiale (WMM) pubblica un Report contenente i dati sullo stato del clima a livello globale. L’ultimo Rapporto 2018 ha evidenziato 3 aspetti: 1) il 2017 è stato il quarto anno più caldo mai registrato; 2) negli ultimi 22 anni si sono verificati i 20 anni più caldi; 3) nel 2017 le concentrazioni di anidride carbonica hanno raggiunto più di 405 ppm/parti per milione (+146% rispetto ai livelli pre-industriali). Un simile valore si è già registrato sulla terra tra i 3 e i 5 milioni di anni fa: l’uomo non aveva ancora fatto la sua comparsa, le temperature erano di 2-3 gradi più alte e il livello del mare era più alto di 10-20 metri. La differenza fondamentale risiede però nel fattore tempo, in quanto nell’epoca attuale sono bastati solo 250 anni di combustione di carbone, gas e petrolio (oltre a vari altri indicatori come un’agricoltura sempre più intensiva, lo sfruttamento della terra, la deforestazione, la crescita della popolazione mondiale, ecc.) per raggiungere il valore di 405 ppm.

Qualche anno fa si riteneva che la soglia “di sicurezza” per non stravolgere il clima fosse di 350 ppm, poi alzata (e già superata) a 400 ppm. Ciò significa che, se anche - per pura ipotesi - le emissioni di gas serra dovessero cessare immediatamente, sarebbero comunque necessarie decine di anni per ritornare sotto la soglia dei 400 ppm, con effetti ormai innescati e non evitabili. Solo per fare due esempi, negli ultimi 20 anni la velocità di scioglimento dell'Antartide è aumentata del 280%, mentre, secondo uno studio delle Università di Brema e Innsbruck, si prevede che si perderanno (e si stanno già perdendo) il 40% dei grandi ghiacciai della Terra. Una situazione di altissima allerta che impatta su molte variabili tra loro interconnesse e che impone due misure urgenti: ridurre drasticamente le emissioni di gas a effetto serra per scongiurare di raggiungere, nei prossimi anni, quello che viene definito il “punto di non ritorno” (c.d. mitigazione), e prepararci ad affrontare gli ormai inevitabili, ma ancora gestibili, effetti (c.d. adattamento). Il nome dato a questa epoca geologica in cui l’ambiente terrestre è fortemente condizionato dalle attività umane lo dobbiamo al premio Nobel per la chimica atmosferica Paul Crutzen, che la chiamò “Antropocene”. Ma quanto tempo ci abbiamo messo a rendercene conto?

Nel 1972 il Club di Roma, associazione di scienziati, umanisti e imprenditori, scrisse e pubblicò quello che presto sarebbe diventato un bestseller tradotto in 30 lingue nel mondo, “I limiti dello sviluppo”. Nel 1979 uno storico Rapporto della US National Academy of Science lanciò per la prima volta l’allarme sul riscaldamento globale e, nel 1988, il Direttore della Divisione Ricerca Climatica della Nasa, James Hansen, pronunciò la famosa frase “global warming is here” (“il riscaldamento globale è qui”). Nello stesso anno l’Organizzazione Meteorologica Mondiale e il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP) fondarono l’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), organo intergovernativo delle Nazioni Unite per la valutazione scientifica relativa ai cambiamenti climatici, con il ruolo di fornire informazioni scientifiche per lo sviluppo di politiche sul clima: tra queste, soprattutto, i negoziati internazionali. Il lavoro dell’IPCC si articola nel seguente modo: sono membri effettivi i Paesi Membri OMM e UNEP; la comunità scientifica elabora i contenuti dei rapporti su mandato della Plenaria IPCC; ogni rapporto è sottoposto a due fasi di revisione a cui partecipano anche gli esperti governativi; ogni Rapporto contiene la Sintesi per Decisori Politici. Il primo Report del 1990 evidenziava già allora il rischio di un riscaldamento globale dovuto all’aumento delle emissioni antropogeniche di gas serra causato principalmente dall’uso di combustibili fossili, e fornì la base scientifica affinché la Conferenza delle Nazioni Unite sull’Ambiente e lo Sviluppo del 1992 (c.d. Summit della Terra di Rio de Janeiro) adottasse la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (UNFCC), un trattato ambientale internazionale entrato in vigore nel 1994 con obiettivi non vincolanti di riduzione delle emissioni di gas serra. Da quel momento in poi, le Parti della Convenzione Quadro si sono incontrate annualmente nella c.d. Conferenza delle Parti (COP-Conference of the Parties) per rendere reciprocamente più stringenti gli impegni. Solo per citare le due più famose: nel 1997 a Kyoto (Cop 3) fu adottato il Protocollo di Kyoto, che stabiliva azioni giuridicamente vincolanti per i soli Paesi industrializzati; nel 2015 a Parigi (Cop 21) fu negoziato l’Accordo di Parigi, entrato in vigore il 4 novembre 2016 e vincolante per tutti. E’ il caso di accennare anche a due risoluzioni Onu del 1989, che riconobbero i cambiamenti climatici come una criticità comune dell’umanità e un tema a cui dare massima priorità da parte delle Nazioni Unite.

Nella prossima Rubrica vedremo quindi gli esiti dell’ultimo Rapporto IPCC, gli scenari avanzati e l’Accordo di Parigi.

*La complessità del tema è tale che chi scrive non ha la pretesa di esaurirlo in poche righe, anche perché la sintesi è spesso foriera di imprecisioni. Questa piccola Rubrica ha il solo scopo di proporre aggiornamenti e riflessioni, analisi e spunti (cercando di evitare di ripetere semplicemente quanto già oggetto di diffusione da parte dei media), per ragionare sull’epoca di transizione che stiamo vivendo, come cittadini, come italiani, come europei, come Pd.

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